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    Mi scuso di questo tergiversare e dell’ultima divagazione:
 è difficilissimo per chi non è un grande scrittore parlare 
di ciò che gli sta a cuore senza dire qualcosa di troppo. 
Sarebbe, inoltre, lungo assai (perché la brevità talora è
 incompatibile con la chiarezza e la precisione) far l’elenco e 
descrivere (come si dovrebbe per farne risaltare le peculiarità 
che dimostrano di avere a chi guardi da quassù), non solo i 
casolari e i villaggi sparsi per le campagne o le città 
costruite  in maggioranza  sui  colli e  che si  guardano, per questo, 
l’una  e l’altra  come assopite e, al sole, quasi sbadigliando 
sonnacchiose, ma pure quelle ai lati dei fiumi e quelle più di 
recente costruite o ampliate lungo tutta la riviera.     
    Lasciando il suo litorale, sono indotto a puntare subito 
lo sguardo su Recanati e sul colle de  L’infinito  
 (foto 90); 
e a figurarmi lì un Leopardi non più giovane e ritornato al 
paterno  ostello,  come  avrebbe  voluto  dopo  aver  sofferto  il 
soggiorno d’una città, per lui recanatese, “africana” come 
Napoli. Me lo immagino solitario e seduto dietro la siepe e 
col suo cannocchiale scrutare nel panorama anche questo 
colle di Pitino con la sua torre antica; e poi sentirlo 
mormorare (si cita a memoria e in parte s’interpreta): «Quando 
da   quest’ermo  colle   rivedo   quei  monti  azzurri,   che  un 
giorno io mi pensava di varcare  (arcani mondi, arcana
 felicità fingendo al viver mio) ; e quando guardo di nuovo la 
natura in questi luoghi, che sono ancora ben coltivati e so 
 che  sono ,  anche  per  questo,   veramente  ameni,  mi  sento 
come trasportare fuor di me stesso, tanto che mi parrebbe 
di far peccato mortale a non curarmene  e a non elogiare, 
dopo averli  diffamati a  mal mio grado , la gente 
 marchegiana  e il mio paese; ai quali dovevo e devo tutto (e mi è 
d’obbligo dirlo e smentirmi del contrario già troppe volte 
detto) quello che ora mi torna ad elogio: la mia educazione 
e per intero la cultura mia».   
    Dire che questo recanatese è il maggior frutto del nostro 
territorio,  un  marchigiano  da  mettere,  in  una  graduatoria 
mondiale, ai primi posti come poeta e scrittore, e  da
 paragonare solamente ai greci , è oggi cosa ammessa da “color 
che sanno”, cioè da tutti i saputi più e meglio ammaestrati. 
Eppure questi  diffamatori della nostra terra, pur non 
credendo ai miracoli, lo dissero e tutti lo dicono ancora frutto, 
non  si  sa  come,  della  peggiore  arretratezza  esistente  al 
tempo in cui nacque: della più retrograda provincia dello 
Stato più sottosviluppato e più reazionario di tutta l’Italia 
pre-risorgimentale. Un pregiudizio, questo, mai irrevocato 
perché voluto irrevocabile.     
    Osservando poi lentamente nei particolari la città (che a 
guardarla da Pitino si distende, quasi a far da corona, poco 
sopra  l’agglomerato  ancora  tutto  di  color  biscotto  della 
quant’altra mai leggiadra cittadina di Treja) 
 (foto 90), 
si indugia  a  cercar  nel  “borgo”  la  vetta  della  torre  antica  del 
passero solitario; e, sostando nella parte terminale a 
sinistra,  a  scorgere  i  fabbricati  che  in  prospettiva  fanno  un 
tutt’uno con le prime costruzioni di Loreto; dove, sia pure 
per poco, si rendono visibili, sullo sfondo azzurro del 
mare,  il  palazzo  apostolico,  il  campanile  del  Vanvitelli  e  la 
statuina  della  Vergine  in  cima  alla  cupola  del  santuario. 
Guardando si recita mentalmente il verso leopardiano che 
si  riferisce  (ma  a  quei  saputi  di  sopra,  chissà  perché,  
dispiace che si  dica) alla  “traslazione” della Santa Casa:   l’ 
antico error, celeste dono, ch’abbella agli occhi tuoi (cioè 
della sorella Paolina) quest’ermo lido .    
    Ma  da  Pitino,  necropoli  picena,  il  pensiero  va  subito  in 
cerca  di  Numana;  e  il  pensiero,  superando  archi  di  tempo 
immensi, compie un tuffo immediato nella storia della 
“marca” più antica: quella del Piceno. Eccezionali reperti 
archeologici (dissepolti dalla necropoli di Pitino e portati, dalla 
cultura burocratica, a riseppellire, come si fa con ogni refurtiva, 
nei sotterranei di quell’Ancona, tiranno capoluogo di regione) 
testimoniano che le conoscenze, la tecnica e i prodotti della 
civiltà antica, anche babilonese, arrivarono fino a Numana e 
da qui a Pitino; cioè in uno degli insediamenti più importanti 
del Piceno che li ha conservati per secoli prima di esserne
 legalmente derubato, nella generale indifferenza, dal cosiddetto 
“progresso  culturale”.  Quei piccoli  resti 
  (foto  205-234) d’una 
antichissima nostra civiltà, se fossero stati non sottratti, ma 
custoditi  ed  esposti  nel  luogo  d’origine,  avrebbero  potuto, 
mantenendo per intero tutto il loro significato e valore, 
aiutare la mente e la nostra immaginazione a rivedere quella parte 
del panorama della storia di Pitino ormai visibile non più con 
gli occhi né col binocolo, ma col solo pensiero; pensiero che 
ha occhi per vedere e rivedere cose di noi umani accadute in 
un passato remoto, sepolto in ere antichissime e che le nostre 
pupille, senza guardare quei reperti, non possono più aiutarci 
nemmeno ad immaginare.    
    Pitino poteva essere in loco non solo un piccolo gioiello 
di museo della civiltà picena, ma pure – come suggerì il re 
Gustavo Adolfo di Svezia in un sopralluogo di tant’anni fa – 
un centro internazionale di tecnica di scavo archeologico. A 
prova di questo, Sabatino Moscati, segnalando dalle 
colonne del  Corriere della sera solo Pitino e Numana come i più 
importanti  insediamenti  piceni  delle  Marche 
  (foto  144-147), 
anni fa scrisse che a Pitino c’era un tesoro di informazioni 
che ancora non si era finito di scavare. Ciò che, scavando, 
era già stato reperto, avrebbe potuto fare da esempio e
 contribuire  in  maniera  decisiva,  se  conservato  in  loco,  a  fare 
delle Marche (come si dice che sia, ma, a motivo di quella e 
di tant’altre sottrazioni, non è) una regione-museo. 
 
            Castelli e fortezze    
     
    
 
   
     Lasciando  di  guardare  con  questo  rammarico  il  litorale 
numano  e  recanatese,  rivolgo  di  nuovo  lo  sguardo  verso 
l’interno; e cerco, ancora con leopardiana mente,  le mura e 
gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi 
nostri , che sono disseminati in tutto il panorama. Lo 
sguardo (uno di quelli che da qui si stendono intorno come cerchi 
da un punto della riva sulla superficie dell’acqua) si ferma 
sulla città di Sanseverino, per secoli rivale, più a lungo assai 
di ogni altra, del castello-fortezza di Pitino. È stata sempre 
la sua elevata e centrale posizione geografica a rendere 
molto appetibile il possesso di questo castello: chi lo possedeva, 
era in grado di sorvegliare e dominare non solo a palmo a 
palmo tutta la sua grande collina, ma pure tener sotto 
controllo  l’intera  valle  del  Potenza,  cioè  le  comunicazioni,  i 
traffici di merci e i movimenti degli eserciti nel cuore del 
Maceratese, dalla montagna al mare, dalla Marca 
anconetana all’Umbria. Per impadronirsi o per conservare, a sua 
difesa e vantaggio, questa importante posizione strategica, il 
Comune  di  Sanseverino  in  tutto  il  medioevo  non  esitò  a 
guerreggiare,  con ammirata ed insieme deprecabile 
ostinazione, contro tutti i castelli e i comuni limitrofi.     
    Osservando svettare la torre del mastio, quella 
campanaria del duomo e le parti visibili della cinta muraria del 
castello  di  Montenero  (un  insieme  architettonico  ancora 
splendido, che costituiva prima l’ acropoli  e ora l’orgoglio 
della città) 
 (foto 93-96), penso che ogni successore
 dell’antico “lucumone” o re o comunque capo piceno di Pitino – 
ora non ricordo più bene se si chiamasse così, ma  me lo 
immagino come il suo monumentale collega di Capistrano 
 (foto 235) – aveva davanti agli occhi ogni giorno il nemico 
da cui guardarsi e difendersi. Ogni feudatario di Pitino 
dovette,  infatti,  allearsi  più  volte  con  questo  o  con  quello: 
farsi vassallo ad ora ad ora non solo del comune di Treia o 
di  Tolentino,  ma  ad  un  tempo  confederarsi,  oltre  che  a 
questi  insieme,  anche  con  Cingoli  e  Camerino, 
 coinvolgendone altri ancora per sottrarre il suo feudo dalle grinfie 
dei Sanseverinati. Ma furono tutte alleanze vane: Pitino è 
stato più volte preso e lasciato e alla fine vinto e 
smantellato come tutte le fortificazioni e gli altri castelli (21 ne
 elenca il Talpa tra castelli e rocche) confinanti con quello della 
fiera fierissima, ma non per questo sempre avveduta e
 lodevole, città di Sanseverino.     
    Nel tentativo di rintracciarne i principali per guardarli 
nel panorama ad uno ad uno (soltanto il castello di 
Carpignano, Civitella  e Gàgliole non era e non è possibile 
scorgere  da  Pitino),  da  qui,  dopo  la  demolizione  della 
guardiola, più non si vede il castello di San Lorenzo, che 
fu più volte, come è oggi, sotto il comune di Treia: solo 
da un grosso rotolo in pergamena, ora custodito
 nell’archivio  dell’Accademia  Georgica  della  città,  si  sa  della 
sua vicenda definitiva.    
    Della rocca, qui di fronte, di Monteacuto, detta 
Roccaccia, ora si rendono visibili 
 (foto 97) pochi ma imponenti 
ruderi, che sembrano ancora tenere a bada il sottostante 
castello di San Lorenzo e con esso Motecchio (Treia), e scrutare, 
come fecero per secoli, le valli del Musone e dell’Esino.    
    Della  rocca  di  Civitella  -  invisibile  non  tanto  perché 
dietro questo monte Acuto che mi si para davanti, ma più 
perché fatta, 10 secoli fa, interamente sparire - nemmeno il 
più piccolo brandello d’un muro si è più trovato sul 
culmine  della  collina  dove  viveva  tranquilla  e  inoffensiva:  fu 
proditoriamente e per decisione dei  boni homines  del 
Municipio sanseverinate (liberi e fieri, ma pure aggressori) 
assalita  in  un  giorno  di  festa,  rasa  al  suolo,  saccheggiata e 
poi depredata, come pare, anche delle rovine per impedire 
che la sua ricostruzione ridiventasse autonomia, neutralità 
o, forse, alleanza con altri.  Ricordatevi  - scriveva un 
conosciuto scrittore di un tempo -  che le mura delle città si
 fanno con le macerie delle case del contado.  E un altro, poeta, 
non meno famoso:  Odo già il brusio del borgo. / È qui il 
paradiso  vero  del  popolo:  /  felici  e  contenti  tutti  quanti.  
Un altro osservava:  Tutti sanno essere buoni in campagna.  
E Calvino (Italo) concludeva:  Le città, come i sogni, sono 
costruite di desideri e di paure . A questo io aggiungo, 
certo banalizzando (ma non troppo, se ripenso ed immagino 
che fine riservarono i sanseverinati agli abitanti 
di “Ciuetélla”, Casavolla e Truschia), che le derattizzazioni urbane 
sono  troppo  ingiuste:  la  cosa  peggiore  delle  città  spesso 
non sono i topi, ma gli uomini che le abitano. Tuttavia, a 
proposito di  aggressori  e aggrediti, c’è stato pure chi, da 
storico insuperabile per genio e imparzialità, scrisse: 
 «Nessuno, potendo fare impunemente un acquisto ingiusto con 
la forza, vi ha mai rinunciato per benevolenza o in 
omaggio alla giustizia; e, da emulo pessimo, un altro aggiunse: 
e tu fa prima agli altri il male che gli altri potrebbero fare 
a te» . Ma quelli di Civitella non avrebbero potuto fare ai 
sanseverinati il male che questi fecero a loro. Chiedo 
scusa, se passo per un ammiratore della prima frase messa in 
corsivo, ma disapprovo la seconda: un’immoralità
 predicata è più deprecabile e punibile di un’azione immorale. E i 
Machiavelli, proprio perché in vesti curiali e lodati, sono 
più biasimevoli dei Borgia: questi hanno commesso 
crimini  e  delitti;  quelli  dicono  che  si  dovevano  commettere. 
Gratta il Machiavelli, e troverai un Borgia: un boia che
 davanti ad una mannaia e un cippo insanguinato fa diventare 
il crimine un diritto. Anche quando è usata per una causa 
giusta, la violenza, come la punizione, è cattiveria, un 
male; e trasforma la stessa giustizia in ingiuria. Pauroso (pare) 
e gretto, il segretario fiorentino, forse maestro di quei  boni 
homines   autori di quell’eccidio, aveva, benché “laudato”, 
un animo da poco, e faceva gli altri tutti uguali a sé stesso.    
     Pur non vedendo la collinetta dov’era, così, con queste 
considerazioni ricordo quel piccolo borgo fortificato di 
Civitella,  che  nessuno  mai  più  menziona  e  dove  ora  si  va 
dov’era solo se si è in cerca di corniole, fragole e funghi.    
     Di Serralta 
 (foto 99) non si vede da qui l’arco d’ingresso, 
la struttura principale in grado di ricordare, insieme a tratti 
di mura, che sia stato un castello. E di quello di Isola
  (foto98) 
 svetta,  invece,  imponente,  anche  se  diroccata,  la  sola 
costruzione rimasta: la mole grande e robusta del mastio. 
Di un paio di noti ruderi di Castel San Pietro
  (foto 100), che 
spicca luminoso col suo campanile tra il verde cenere della 
campagna e il marrone ingiallito della boscaglia, non se ne 
scorge nessuno. Del borgo fortificato di Elcito 
 (foto 101) si 
sa e si vede, invece, che più non esistono il mastio e il 
maniero: il primo demolito da milizie del Municipio di 
Sanseverino verso la fine del 1200; il secondo, per
 rappresaglia contro le facili bravure partigianesche –  a nemico che 
fugge si fanno ponti d’oro , e non aggressioni, agguati e 
sabotaggi: se il ponte romano della nostra città a Fontenova 
fu anch’esso fatto saltare, lo fu a causa di quei  bravi ! – il 
secondo fu come questo fatto crollare, ancora per 
rappresaglia, dalle mine dei soldati tedeschi sul finire dell’ultima 
guerra. È ovvio che mi soffermi a vedere se la mia 
casupola sta ancora lassù, su quello sperone di roccia; e che riviva 
per  alcuni  secondi  i  giorni  in  cui,  legato  ad  una  corda  e 
penzolando in lungo e largo su quella parete a strapiombo, 
mi feci muratore perché non precipitasse sul fondo quella 
che per tutti era la  casetta  non di Giosafat, ma di Giove. 
Malvolentieri lo sguardo si distacca da questo piccolo 
paese alpestre dal sapore andino, che un tempo fu celebre (da 
 celeber  che significa molto popolato e per questo assai noto) 
ed imprendibile  come  il  castellaccio  dell’Innominato ; 
ma ora, senza più un’anima che vi soggiorni, senza un 
camino che fumi, somiglia per intero ad un abbandonato
 rifugio di briganti tutto l’anno, tranne in estate per il suo 
innegabile fascino: per il panorama, non ampio come questo 
di Pitino, ma un connubio meraviglioso di aria e di vento, 
di silenzi, di colori e luci.    
    A guardare dov’era il fu castello della Truschia – detto 
la  Torre 
  (foto 102) 
dopo la prima distruzione fatta, nel 1218, 
sempre da quei  prepotentoni  (così direbbe il Porta) di  boni 
homines , che  la uguagliarono alla terra con ferro e fuoco  – 
mi viene un nodo in gola. Perché la Truschia era, in antico 
e da qui, come  Limonta del “Marco Visconti”  in faccia a 
Lierna:  una terricciola  (assurta  a  feudo,  con tanto di 
castello),  presso che ascosa al guardo di chi la cerca a
 mezza costa tra i colli
  (foto 102) 
e la boscaglia dei monti attorno 
al Sanvicino. Ora, lì dove sono cresciuto, non c’è più nulla 
che si possa da lontano vedere: tanto poche e coperte dalla 
vegetazione sono le rovine rimaste. Solo con la memoria 
rivedo, della Truschia, il sotterraneo della Torre che so 
coperto dai rovi (e dove  Fofìola prima suis me coepit ocellis ), 
poi il piccolo avanzo di un rudere nascosto ancora dal 
bosco sul cono del Castellaro
 (foto 104) 
e, dietro, il casolare 
che era sulla radura di Roffiano, dove vissero pure i nonni 
di  mio  padre  ed  io  vi  fui  ragazzo  insieme  al  mio  primo 
amico, Otello Marasca, e quel carissimo, indimenticabile e 
temuto mattaccio,   Francì de Timoto . Di lui ricordo  che i 
tuoni, i lampi e la pioggia ci fecero incontrare di corsa e 
conoscere al capanno di quell’omone di Ulisse. Che fosse 
diverso  lo  vidi  subito:  emozionato  per  avermi  davanti  la 
prima  volta,  balbettando  e  ribalbettando  non  riusciva  a 
dirmi chi era, perché  Francì  non sapeva né capiva di 
doversi  chiamare  sempre  Francesco.  Che  non  fosse  tutto  lo 
seppi dopo: lui, ritenendo ogni cosa capace d’intendere e 
volere, parlava alle pecore, sgridava nel sonno i lupi, 
perdonava irato gli spini, rimetteva in acqua i gamberi dopo 
un lungo sermone. Io riuscivo a divertirlo: gli mettevo 
davanti le mie mani, spiegandogli qual era la destra e quale la 
sinistra; poi le mescolavo e gliele rimettevo di nuovo 
davanti, domandandogli: qual è la destra - qual è la sinistra- 
Lui le guardava fisso, e poi, rispondendomi, tirava ad
 indovinare. Al bravo,  Francì , bravo!, lui rideva, rideva,
battendo, felice, i piedi e stropicciandosi le mani. Chi dei due 
fosse più felice o il più  minus habens , io ora non saprei. 
So, però, che lui è stato con me il più buono di tutti: mai 
mi fece l’obbligo di non apparire né di scusarmi di essere 
stato più intelligente di lui. Di solito niente ferisce gli
 amici più di questo, specie se sono più di noi avanti in età.    
     Cessato un tale ricordo e sempre con la sola memoria, 
rivedo pure il cascinale di Camporaglia e, prima e sotto di 
questo,  le  due  casupole  della  Romita.  Dopo  i  fatti,  tanto 
superflui quanto infausti, della nostra resistenza partigiana, 
la  zona,  abbandonata  da  tutti,  è tornata  ad  essere 
rapidamente del tutto inumana. Per la desolazione (sono spariti 
sotto terra perfino i tetti delle case!) portatavi da quella 
disgraziata vicenda e poi dalla modernità, nella mia terra 
natia so che, ormai da lustri, per nessuno rinverdisce né più si 
rinfiora la primavera. E so che la strada (dove ai bordi si 
udiva l’usignolo cantare la sua pena e dove tra i rami
 fuggiva il pettirosso; dove ebbi la gioia d’avere un mantello 
ad ogni tormenta e dove, fermo, ascoltai il fragore del 
fosso grande venir su dai gorghi sotto Castellaro; dove, 
camminando, sentii  spesso  gemere la brina, la neve  crepitare 
sbroscia  e  le  foglie  frusciare  sotto  i  miei  passi)  –  so  che 
quella strada, ancora a tratti aperta al vento, al sole e alle 
bufere, a qualche lupo, al tasso e alla faina, muore deserta 
nel primo cascinale fatiscente del villaggio abbandonato di 
Valliola: la casa che fu di quel gigante dal labbro leporino, 
di quel boscaiolo e tinto carbonaro dagli occhi di brace, di 
quell’accigliato  “mangiacarline” di Ulisse Gregori. Come 
si rifà bambina! come corre e ricorre la memoria, quassù!    
     Più  consistenti,  soprattutto  per  la  superstite  torre,  
appaiono, invece, le rovine del castello di Aliforni 
 (foto 105). 
Chiudo gli  occhi  e  rientro nella sua chiesa castellana per 
risentirvi,  mentalmente  come  la  prima  volta,  il  suono 
dell’organo: un gioiello venuto da Roma, un  Catarinozzi  lì 
ora in completa rovina, non frequentato più nemmeno da 
topi, ma che una volta si dice fosse stato suonato dal giovanissimo Mozart.     
     Non si vedono più, invece e dopo il loro restauro e la 
parziale  ricostruzione,  le  rovine  della  rocca  o  castello  di 
Schito 
 (foto 107)
 laggiù sopra le “rote” del Potenza. I  boni 
homines   odierni,  insieme  agli  esperti  quando  ne  parlano, 
dicono, con disprezzo, che quel restauro è  gratuito ; e 
dicono il vero perché, infatti, non è costato nemmeno una lira 
allo  Stato,  grazie  ad  un  uomo  (Ernesto,  mio  padre)  che 
 molto oprò col senno e con la mano . E il disprezzo nasce 
non tanto perché quel restauro è malfatto (se non per altro 
perché può essere fatto meglio), quanto piuttosto perché fu 
da me,  incompetente , identificato come la rocca o il castello  
di  Schito;  e  reso,  per  di  più,  alla  meglio  abitabile  senza 
sentire il parere di quelli che di Schito non sapevano nulla, 
nemmeno che esistesse dopo essere stato dai loro antenati 
fatto diroccare come tutti quei castelli del contado che, se 
pur rifatti così, farebbero la fortuna anche del nostro 
Comune. Quasi tutti i miei concittadini si sono comportati
 finora  come  quel  don  buffone   di  Amedeo  Gubinelli  buon’ 
anima; che scrisse non per far ridere (ch’era il suo riuscito 
mestiere):  Schito non è  un castello vero e proprio , senza 
dire cos’era, per non averlo mai né visitato né visto, 
nemmeno una volta. Molti eruditi si comportano ancora come 
lui  e  Gualberto  Piangatelli,  cioè  come  Cremonini,  che  si 
rifiutava di  guardare nel cannocchiale di  Galileo per non 
vedervi smentito Aristotele, cioè la dotta supponenza.    
     Solo la punta del campanile mi fa subito localizzare il 
castello di Colleluce 
 (foto106    ). 
 “Quel maestoso colle 
interamente isolato all’intorno... Trovasi come di fronte a due 
valli… «Bella posizione! strategicamente bella!», non puoi 
fare a meno di esclamare” , guardandolo. Castello dal 
nome splendido (ma oggi dovrei dire “solare”!) e vero (anche 
se gli storici propendono a trarne origine e significato da 
 colle della selva o del bosco sacro , cioè da  lucus e non da 
 lux ). Osservando il poco che si scorge dell’abitato (in varie 
epoche “celebre”, cioè popoloso quanto Pitino), ripercorro 
mentalmente il tragitto del girone nei tratti delle mura 
ancora  esistenti;  e  rivedo  come e quante  volte  e quanto
 repentinamente  la luce della campagna tutt’intorno al colle 
cambia di colore, prima di rendersi, pur macchiettato,
 uniforme nelle diverse gradazioni del marrone, nei tratti di un’ 
ampia e rigogliosa boscaglia. Un bel panorama, un bel
 vedere davvero; più sereno, più intimo e raccolto rispetto a 
questo  di  Pitino.  E  se  la  storia  è  la  conoscenza  
dell’infelicità  umana  perché  è,  secondo  Voltaire,  un   quadro  di 
delitti e di sventure , allora Colleluce, benché smantellato al 
pari degli altri castelli, si deve ritenere fortunato. Perché, 
per quanto  io  ne  sappia,  non  ha una  storia  così;  o,  se ce 
l’ha, è senz’altro “mediocre” per scarsezza di eventi di
 solito noti solo perché da incubo. Colleluce credo che sia 
stato castello di origine monastica come Elcito: costruito per 
rifugio e a difesa, e non come strumento di aggressione a 
motivo o pretesto del poter vivere in sicurezza e pace. L’ho 
domandato in paese, ma nessuno mi ha saputo dire dov’era 
né se ci fu mai una prigione.     
     Ricordo  quando,  da  ragazzo  e  insieme  ad  altri,  vi  fui 
portato da don Massimo Nardi a far visita ad un santo fuori 
paese. Era uno della famiglia De Angelis: un giovane
 invecchiato anzitempo, privato com’era, dal male, della sua 
giovinezza; un disabile sereno, un infermo felice.
 Pronunciava qualche parola, ma solo la vista gli funzionava bene. 
«Gioisce – disse la sorella dell’infermo (o di Albino Calamante?)
 che gli era daccanto – quando si apre la finestra e 
gli entra la luce. E spesso,  luce  - dice contento ad ogni 
risveglio -  più luce! ». Ora, ricordare questo, mi fa pensare 
che il solo uscire dall’oscurità col sopraggiungere della
 luce  del  giorno,  come  gli  veniva  diffusa  dalle  sinuosità  di 
quel colle, lo ripagasse di ogni strazio, anche senza vedere 
un panorama come questo da Pitino, ma spesso solo uno 
spicchio di cielo. Chi sa, forse la vita gli appariva degna di 
essere vissuta comunque, perché il vivere era, forse, per lui 
come  Bufalino  dice  che  sia:   fruire  uno  squarcio  di  luce , 
che ci permette di prevedere un’altra vita. Nel mormorare, 
infatti, le sue orazioni, lui diventava - dissero - come 
trasognato:  come  in  contemplazione  di  un  mondo  fatto  di 
tutt’altra natura. Spinto da un tale ricordo, sono tornato più 
d’una volta lì dove si dice che ora riposi (ma che stesse lì, 
prima sotto terra e ora sul nuovo loculo, io non ci ho mai 
creduto, non ci posso credere: lì c’è solo il resto del suo 
 disadorno ammanto  in attesa d’essere diverso).     
     Anche solo con quest’umile biografia la storia di questo 
castello per me, quindi, sarebbe di maggior lezione rispetto 
a quella, spesso drammatica, di altri castelli del contado. Io, 
insomma, di esso, ora che lo guardo da questa torre, ricordo 
solamente che vi ho visto risplendere, in un modo tutto 
particolare, i molti colori che vi assume l’essenza di tutte le
 cose; e quindi sia quella di quel defunto  che beveva con gli 
occhi la luce del colle, e sia quella degli amici che vi 
abitano: sono due, sono ormai vecchi quanto me anch’essi, sono 
i migliori. Ci ho provato ad essere uno di animo come loro, 
come un De Angelis. Ma - che io sappia - non ci sono 
riuscito neanche  un po’. Non sarà mica - mi domando da
 insincero e in cerca di scuse - perché la mia è una luce 
diversa, cioè di un altro paese?!  
 
            Chiese, eremi e abazie    
     
    
 
  
  
    Nel ricercare dov’erano i resti delle due casupole, a me 
noti, della Romita nel territorio dell’antica Truschia – resti 
che, da qui, si sarebbero potuti scorgere se ci fossero 
ancora, ma tutto ciò che di artificiale in quella piccola radura vi 
fu fatto dagli eremiti e dopo, è tornato ad essere del tutto 
naturale – faccio la costatazione che di eremi o dei loro
 ruderi (e ce ne sono, e di importanti, perché, dal tempo delle 
invasioni dette dei barbari e per alcuni secoli, gli eremi 
fecero  in loco  da culla alla civiltà cristiana), da qui non
 riesco a vederne nessuno. E mi sto dando la spiegazione: 
perché - mi dico - se si vedessero e fossero facilmente 
accessibili,  non  sarebbero  eremi.  Ma  degli  eremi,  ossia  degli 
eremiti  (Romualdo  da  Ravenna,  Francesco  d’Assisi,  
Domenico  Loricato,  uno  dei  nostri,  Pier  Damiani  ravennate 
anche lui, Michele Berti da Calci) si vedono e si sentono 
ancora dovunque gli effetti stupendi per ardore spirituale e 
senso dell’umano. Di tutti loro si sa qualcosa, e molto di 
alcuni, tranne che di frate Michele, dell’ordine dei
 Fraticelli di povera vita : la cronaca che narra la sua partenza da 
Sanseverino, il processo subito, i suoi ultimi giorni, la 
sentenza di condanna e la morte sul rogo a Firenze, è opera 
quasi sconosciuta, benché sia - si dice - uno tra i più 
commoventi e vivi testi della nostra letteratura cosiddetta 
minore. Pensando a loro, penso che le azioni sono figlie dei 
pensieri; che le idee, quelle suscitate dai più umani e forti 
sentimenti,  sono  la  causa  delle  cause;  che  sono  esse  che 
muovono il mondo. Penso quindi che le idee di quei
 monaci, nate  e coltivate in quegli eremi, sono state le cause 
che hanno in gran parte plasmato il meglio della civiltà 
cristiana ch’è nostra. Per questo ripenso all’eremo di Soffiano 
e di sant’Eustachio 
 (foto 109),
 al santuario di Macereto, alle 
abazie di Fiastra, Rambona
  (foto 108), 
sant’Eustachio, Roti, 
Valfucina, Valdicastro, al monastero San Mariano a 
Colleluce,  Beato  Rizziero  a  Muccia;  alla  piccola  grotta  di  san 
Franceso sul Sanvicino, a quella rupestre, ancora più
 piccola e sconosciuta, della Romita e al convento degli 
eremiti Clareni, che fu qui di fronte, sul poggio di Valcerasa a 
Treia: luoghi d’ineffabili esperienze bisognose di 
solitudine, di macerazione e di preghiera; dove la fede religiosa si 
fece più energica e viva, volta più che alle pratiche 
esteriori e di posa liturgica, a quell’ itinerario della mente verso 
Dio  che è l’essenza della vita religiosa e cristiana.    
    E le chiese? Neanche le chiese si vedono bene e
 numerose come ci si aspetterebbe di poter ammirare. Per lo più 
di esse, inglobate nell’abitato, si scorgono solo i campanili. 
Così è delle chiese di Sanseverino, Treia, Recanati e 
Loreto, Osimo, Potenza Picena, Montelupone, Pollenza, 
Sanginesio. Lontano, laggiù a sud, sull’ultimo orizzonte, 
s’ indovina,  però,  emergere  possente  il  duomo  di  Fermo 
  (foto 91),
 che sembra scrutare, come per dominarle, le creste di 
Falerone e San Ginesio. Per intero, dopo l’abazia di 
Rambona, si vedono solo i santuari ancora fuori dell’abitato: il 
vicino Santuario del Crocifisso di Treia
 (foto 91) 
ad est, e quello - credo - di Campocavallo in Osimo, mentre a ovest, 
sopra l’acropoli del castello sanseverinate, il santuario 
dedicato a san Pacifico: una stella del mite e del forte Piceno, 
uno dell’illustre famiglia settempedana dei Divini.     
    È  inevitabile  ch’io vada da qui  alla  ricerca della
 “Madonnetta  d’Aria”:  un  alpestre  rifugio  e  oratorio  dedicato 
alla Madonna della neve. In un giorno di festa immagino 
lassù  due  giovanissimi  al  loro  primo  incontro:  Erminia, 
d’aspetto gradevole, con i capelli crespi portati a metà 
della fronte; che guarda Ernesto, vestito di nuovo e venuto da 
Sant’Elena fin lassù per vedere se è bella come gliel’hanno 
descritta e parlare con lei. Si sorridono e, pur tra la folla, 
discorrono come in disparte: da loro partono messaggi 
reciproci, che essi non sanno di dare e di avere, e per questo 
si piacciono. Ed io ringrazio Chi gli fornì di quei messaggi 
per  farmi  nascere.  Ma  come  sia  successo  un  evento  così 
importante per me, non mi è stato mai detto. Perché
 nessuno, forse, l’ha mai saputo né lo sa.    
    Ma a catturare la mia attenzione è la nuova chiesa 
costruita qui in basso
  (foto 120) :
una chiesa  conciliare , si 
disse; una chiesa, cioè, che, nel tentativo di essere 
“conciliante”,  non  si  capisce  cos’è,  tranne  una  mostruosità,  perché 
inconciliabile con l’ambiente arcaico dov’è collocata.  
 
   
    La riflessione, che ora essa mi fa venire, è la seguente: 
molte opere degli antichi son diventate, qui a Pitino, 
frammenti dopo secoli; una dei moderni lo è, invece, già al suo 
nascere, perché ne appare precoce tutta la fatiscenza. Questo 
contrasto suscita in me una serie d’interrogativi. Perché si 
prova una segreta attrazione per le rovine? Questo dipende 
dal sentimento di fragilità della nostra vita? C’è una segreta 
conformità tra questo castello disfatto e la rapidità della
 nostra esistenza? Per me - rispondo - è proprio così. Pensando 
che uomini di un popolo intero, pur non avendo potuto 
vivere che i pochi giorni loro assegnati dalla natura, sono rimasti 
famosi come gli antichi Piceni di qui, questo consola la mia 
solitudine e mi spinge a considerare normale e senza 
rammarico la mia fugace esistenza e piccolezza.    
    Dopo questa divagazione, il binocolo riprende a 
cavalcare  dalla  “Madonnetta”  verso  ovest  e  a  scorrere  nella 
valle creata dal fiume Potenza, che inizia il suo corso dal 
monte  Pennino,  massiccio  che  da  qui  appena  si  scorge, 
nascosto com’è dietro la groppa del monte Igno. E dopo 
le strette, brulle e rocciose pareti di Pioraco, essa si sa che 
si allarga non visibile prima verso Camerino e Matelica e 
alle  spalle  del  Sanvicino.  Ma  poi,  da  Castel  Raimondo, 
superata  anche  la  gola  fra  Gágliole  e  Crispiero,  si  vede 
aprirsi a destra verso e sotto le alture di Villa d’Aria e i 
rilievi di Colleluce, Serrapetrona e Cessapalombo; mentre 
a sinistra inizia andando da Serripola ai monti di 
Stigliano  e  Camporaglia,  per  biforcare  infine  sotto  l’altipiano 
del Canfaito e la mole del Sanvicino, da dove, dopo 
Elcito, si unisce alla valle di San Clemente, creata all’origine 
di Valliòla dal fiume Musone.
          
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